Troppa dopamina meno felicità

Pubblichiamo l’estratto di un articolo di Giuliano Aluffi per Il Venerdì di Repubblica: la tesi di Anna Lembke nel suo libro L’era della dopamina.

Studi e sondaggi mostrano che in Occidente siamo, in media, meno felici rispetto a vent’anni fa, e ansia e depressione sono più diffuse nelle nazioni ricche che in quelle povere. Come si spiega il fatto che l’insoddisfazione sia cresciuta proprio dove c’è più benessere e abbondanza? “La risposta è nella nostra biologia, e in particolare nel modo in cui il nostro cervello gestisce il piacere e il dolore” spiega Anna Lembke, psichiatra e direttrice del centro per la cura delle dipendenze della Stanford University School of Medicine, autrice del saggio L’era della dopamina. Come mantenere l’equilibrio nella società del “tutto e subito” (ROI edizioni).

“Il piacere e il dolore sono regolati nella stessa parte del cervello, ed è come se occupassero i due lati opposti di un’altalena che il cervello si sforza, di continuo, di mantenere in equilibrio” spiega Lembke. La chiave di tutto è la dopamina, che è un neurotrasmettitore, ovvero una sostanza chimica che agisce da messaggero tra i neuroni, permettendo loro di scambiarsi i messaggi chimici utili a coordinarsi e a lavorare insieme. Ogni esperienza gratificante, come il mangiare un biscotto o vedere una notifica WhatsApp dalla persona amata, provoca un picco di dopamina rilasciata in una parte del cervello detta “circuito della ricompensa” (che collega l’area tegmentale ventrale, il nucleo accumbens e la corteccia prefrontale, ndr). E l’altalena piacere-dolore si inclina sul lato del piacere.

“Oggi sappiamo che quanto più, e quanto più rapidamente, una sostanza o un’esperienza provoca rilascio di dopamina in questo circuito, tanto più crea dipendenza” spiega Lembke. “Perché una volta che l’altalena è inclinata sul lato del piacere, il cervello per ripristinare l’equilibrio produce uno stimolo uguale ed opposto – e quindi doloroso – alla sensazione provata: questo stimolo è il senso di privazione che subentra al piacere del primo biscotto e ci fa desiderare di mangiarne un altro. È un meccanismo che si è radicato in noi con l’evoluzione, utile a far sì che lo stato di euforia indotto da un’esperienza piacevole si esaurisca presto, così che si rimanga sempre motivati a fare ciò che favorisce la sopravvivenza della specie: cercare altro cibo, accoppiarsi, fare gruppo con gli altri per essere protetti”.

Dopamina tiranna. Troppo piacere fa male

Pubblichiamo un estratto dell’intervista ad Anna Lembke in occasione dell’uscita del suo libro L’era della dopamina, realizzata per La Lettura, da Federica Colonna.

Umani, abbiamo un problema: siamo troppo bravi ad evitare il dolore. Abbiamo risposto così bene alla sfida del perseguimento del piacere da aver trasformato un mondo caratterizzato dalla scarsità in un ambiente in cui siamo sopraffatti dall’abbondanza. Il piacere è dovunque e il nostro cervello è facile preda della dipendenza. Lo spiega Anna Lembke, docente di psichiatria della Standford University, in L’era della dopamina, volume nel quale lancia l’allarme: siamo cactus nella foresta pluviale.

Professoressa, che cosa significa? Qual è l’effetto della super-accessibilità delle fonti di piacere sulle persone?
Il nostro cervello si è evoluto nel corso di milioni di anni nel tentativo di avvicinarci al piacere ed allontanarci dal dolore. Questo circuito primitivo, in gran parte invariato, è adatto a un mondo di scarsità, non di sovrabbondanza, come quello in cui viviamo e che abbiamo trasformato al punto di rendere le sostanze e i comportamenti in grado di procurarci benessere disponibili al tocco di un dito. Il risultato è che siamo circondati dal piacere: il nostro cervello si sta arrovellando per adattarsi al nuovo ecosistema, spesso senza successo. Il risultato è visibile nel crescente tasso di dipendenze e nell’aumento della depressione e dell’ansia, legate al tentativo del cervello di controbilanciare la grande quantità di piacere. Siamo tutti simili a cactus, nati per vivere in un clima arido cerchiamo di sopravvivere in un ambiente inzuppato d’acqua.

Lei considera mentori contemporanei le persone uscite da una dipendenza grave. Eppure sono spesso considerate reiette, pecore nere da non invitare al pranzo della domenica. Che cos’hanno da insegnarci e perché?
Siamo tutti alle prese con piccole dipendenze, dal controllo compulsivo dello smartphone al consumo eccessivo di zucchero. Le persone in recupero da dipendenze severe per sopravvivere hanno dovuto trovare il modo di navigare in un ecosistema colmo di dopamina. La loro saggezza è maturata con l’esperienza che può servire da guida per tutti noi, hanno imparato trucchetti per la vita quotidiana per riuscire a evitare sostanze e comportamenti in grado di creare assuefazione.

Smania incontenibile e costante: come i media digitali hanno reso tutti noi dipendenti dalla dopamina

Pubblichiamo in traduzione un estratto da un articolo sul The Guardian, di Jamie Waters, sul nuovo libro di Anna Lembke, L’era della dopamina.

La dottoressa Anna Lembke, esperta mondiale di dipendenze, è preoccupata per il mio “phone problem”. Durante la nostra intervista le confesso, di sfuggita, di avere un malsano attaccamento al mio iPhone, controllandolo ogni pochi minuti come un tic compulsivo (vi suona familiare?) che Lembke assolutamente non ha. Vorrebbe che mi astenessi dall’usarlo per almeno ventiquattro ore chiudendolo in un cassetto e uscendo all’aria aperta. Le prime dodici ore saranno colme di ansia e Fomo, ma, col passare del tempo, sperimenterò un vero “senso di libertà”, acquisirò un senso di maggiore consapevolezza sulla relazione col mio compagno digitale e mi risolverò “a tornare ad usarlo in maniera un po’ differente”, dice, parlando con un tono rassicurante ma deciso.

Farei bene ad ascoltare il suo consiglio. Come capo della Stanford University’s Dual Diagnosis Addiction Clinic (che si rivolge a persone con più di un disturbo), Lembke ha passato gli ultimi venticinque anni a curare pazienti dipendenti da qualsiasi cosa, dall’eroina, gioco d’azzardo e sesso a videogiochi, Botox e bagni ghiacciati. La psichiatra cinquantatreenne ha scritto un autorevole libro sull’epidemia di prescrizione di farmaci, ha condotto un Ted Talks sulla crisi americana degli oppioidi ed è comparsa nel documentario Netflix del 2020 The Social Dilemma per discutere la particolare droga rappresentata dai social media. È una specialista nel capire perché sviluppiamo dipendenze – e come possiamo apprezzare cose piacevoli in una dose più sana.

Il suo nuovo libro, L’era della dopamina, mostra come siamo tutti dipendenti in qualche grado. Lei chiama lo smartphone “l’ago ipodermico della contemporaneità”: ci rivolgiamo a questo strumento per rapide “dosi”, cercando attenzione, validazione e una distrazione con ogni swipe, like e tweet. Dalla fine del millennio, la dipendenza comportamentale (che si oppone a quella da sostanze) è salita alle stelle. Ogni momento libero è un’opportunità per essere stimolati, sia entrando nel vortice di TikTok, scrollando Instagram, scorrendo Tinder sia abbandonandosi sfrenatamente al porno, al gioco d’azzardo o allo shopping online.

La riscoperta dell’amore per l’ascolto

Pubblichiamo la prefazione di Pablo Trincia a Podcast di Damiano Crognali, sul nuovo rinascimento dell’audio.

Fino all’autunno del 2014 non avevo la minima idea di cosa fossero i podcast. Sapevo solo che erano la trasposizione su Internet di un programma radiofonico e che qualche appassionato si faceva il suo podcast personale da casa, con un microfono artigianale, e lo condivideva su piattaforme di nicchia. Poi il pomeriggio del 13 novembre, mentre sbirciavo il profilo Twitter di uno dei miei giocatori di basket americani preferiti, ho notato che aveva postato un link a quella che definiva una serie “altamente consigliata”. Incuriosito, ci ho cliccato su. E così ho scoperto la prima serie audio della mia vita, Serial, dodici puntate da un’ora l’una che ricostruivano un cold case di fine anni Novanta a Baltimora.

È stato subito amore. Ho riscoperto quanto è bello ascoltare e basta, cosa non scontata per me che, invece, lavoravo con il video. Ho ritrovato il piacere di usare l’immaginazione per ricreare nella testa volti e mondi che mi venivano raccontati e che non sentivo poi l’esigenza di dover vedere, perché nella mia mente avevano già una forma perfetta: quella che gli avevo dato io. Ho adorato questa forma di narrazione orale, così antica, così primordiale, così insita nel nostro DNA e nella nostra infanzia di suoni e parole. Nel giro di pochissimo tempo, ne ho scoperto il tremendo potenziale. Anche in questo caso tutto passava dal telefono e dalle cuffiette e anzi, rispetto al video, l’audio si poteva sentire in mille momenti morti della giornata, mentre si facevano mille altre cose. Affamato di questo nuovo genere, ho cercato altri prodotti come Serial. E ho scoperto un mondo di programmi on demand, dalle true crime ai talk, passando per podcast di storia, scienza, cultura.

Quante cose si potevano apprendere guidando, cucinando, correndo o stando seduti su un treno o sdraiati a letto! E quanto erano più economici i podcast da produrre per noi autori, rispetto alle serie video, così care e per così pochi eletti! Ecco finalmente un nuovo terreno su cui esprimersi. E così mi ci sono buttato anch’io, anima e corpo. Perché da quel novembre di ormai sei anni fa ho capito che questo genere può diventare una delle nuove evoluzioni del modo di fare comunicazione. E il tempo sembra darmi e darci ragione. Sempre più popolari, sempre più seguiti, sempre più amati. Abbiamo ritrovato l’amore per l’ascolto. Ora, però, dobbiamo lottare per tenerci stretti i nostri nuovi ascoltatori.

Le parole da non dire mai e quelle per ottenere tutto

L’unicità delle parole e l’importanza della loro selezione spiegate da Paolo Borzacchiello, autore de Il Codice segreto del linguaggio ed esperto d’intelligenza linguistica. Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Lucia Esposito su Libero Quotidiano.

Intervistare un esperto di intelligenza linguistica crea subito un grosso problema: trovare le parole giuste per non sembrare un deficiente linguistico. Da che parte cominciare? Privilegiare i convenevoli o andare al sodo? Scegliere parole ricercare o preferire quelle colloquiali? «Buongiorno, scusi se la disturbo, la chiamo per l’intervista concordata l’altro giorno. Adesso potrebbe parlare?». I saluti, le scuse, il condizionale… la frase ci sembrava perfetta ma il guru della comunicazione efficace Paolo Borzacchiello autore de Il Codice segreto del linguaggio (ROI Edizioni, 268 pp, euro 23) gentilmente spiega che sarebbe stato meglio dire: «Buongiorno, ci siamo sentiti tempo fa per l’intervista, ha tempo adesso?». Scopriamo che la formula “mi scusi il disturbo” – che usiamo mille volte per educazione o solo per rompere il ghiaccio – mette in una condizione di inferiorità psicologica chi la usa e crea tensione nella parte iniziale della conversazione.

Borzacchiello ha il raro privilegio di dimostrare ai lettori che le parole non sono tutte uguali e che bisogna imparare a selezionarle con cura e maneggiarle con attenzione perché, come recita un detto indiano, «ci sono due cose che non possono mai tornare indietro: una freccia scagliata e una parola pronunciata». Questo libro è una sorta di polizza contro le conseguenze di un uso improprio del linguaggio (quante volte avete dovuto precisare: “non intendevo dire questo”, “mi spiace, hai capito male”) e vi libererà dall’incombenza di dover fare telefonate riparatorie o incontri chiarificatori. Il grande Massimo Troisi in un suo film diceva: «Io sono responsabile solo di quello che dico, non di quello che capite», ma pagina dopo pagina Borzacchiello dimostra che siamo sempre responsabili non solo di quello che diciamo e di ciò che scriviamo. Insomma, se chi ascolta capisce male, la colpa è sempre e solo di chi parla. L’autore del libro spiega concretamente come scrivere una mail che tutti leggono, il post che attira l’attenzione sui social, ma anche come evitare spiacevoli malintesi con il proprio partner o con i colleghi.

Da evitare
Segnatevi questi termini: mi dispiace, difficile, provare, sperare, disturbo, problema, errore e riscontro. Ecco evitate accuratamente di pronunciarli, trovate frasi alternative o piuttosto zittitevi perché sono tossici: al cervello dei messaggi negativi e distraggono l’attenzione di chi vi ascolta. Leggere una mail che ha come oggetto le parole “errore” o “problema” genera disagio nel destinatario. E quando vi fanno una domanda, non rispondete mai: «Ci provo» o «speriamo», sono termini che lasciano trapelare insicurezza e timore. Dire: «Ho il morale a terra» demotiva chi vi sta di fronte, non genera sensazioni positive e in qualche modo scoraggia l’interlocutore.

Ricordate invece queste parole: occasione, opportunità, facile, magico, incredibile, funzionale, strategico. Imparatele a memoria e usatele più che potete perché attirano l’attenzione di chi vi ascolta. L’uso di termini legati alla metafora della guerra come “armi”, “sussulto”, “fronteggiare”, “sotto attacco” sono vere e proprie iniezioni di adrenalina. Al contrario, metafore come “brancolare nel buio” o “ho il freno a mano tirato” provocano delle scosse nel sistema nervoso parasimpatico che portano all’inazione.

Leggi l’articolo completo su Libero Quotidiano

«Vi indico la strada della felicità»

Un’intervista che ci racconta chi è oggi Walter Nudo, autore di La vita accade per te, e cosa significa per lui la felicità. Pubblichiamo un’intervista di Francesca D’Angelo, da Libero Quotidiano.

Questa intervista parte da una domanda semplice: «Chi è oggi Walter Nudo?». Che però tanto semplice non è. L’indimenticato Re dei Reality (ha vinto sia L’Isola dei Famosi che il Grande Fratello Vip) ha abdicato al proprio trono e sta vivendo un nuovo capitolo della sua vita. Dopo essere stato uno spogliarellista, un pilota, un pugile, un attore e un personaggio televisivo, Walter Nudo si è allontanato dalla tv e ha scoperto la propria natura, come racconta nel libro La vita accade per te, (ROI Edizioni).

Chi è oggi Walter Nudo?
In passato sono stato un ricercatore e alla fine del mio girovagare ho scoperto che tutto quello che cercavo era già lì davanti a me. Oggi ho capito la mia vera natura: ispirare le persone. Viviamo in una società che non ti aiuta a scoprire chi sei, anzi, ti fa credere che, per essere felici, devi fare questo o quello.

È diventato un mental coach?
La società mi definirebbe così. Preferisco dire che ho capito che la mia strada è condividere tutto quello che ho imparato in questi anni, per aiutare le persone a trovare il loro potere interno. Che poi è anche il senso del libro che ho scritto. Tengo inoltre dei corsi e, a breve, organizzerò degli eventi live ma, ci tengo a sottolinearlo, senza creare mai dipendenza. A differenza di quello che accade nella religione, io non lego nessuno a me: do una mano alla gente per poi dire “Ok, ora cammina da solo.

Immagino che non lo faccia pro bono dei.
Come in qualsiasi percorso la differenza la fa la singola persona: anche il più bravo personal trainer non potrà mai aiutare se l’interessato non esegue gli esercizi. L’impegno lo devi mettere tu. Noi occidentali diamo un grande valore al soldo che è il mezzo con cui stabiliamo di impegnarci. Se pago, metterò tutto me stesso in quello che farò.

Lei è passato attraverso un incidente quasi mortale, due ictus, le delusioni lavorative, le dure crisi economiche e la depressione. Ma la felicità esiste?
L’universo ci aiuta mandandoci dei segnali: la vita non accade a me, ma per me. Se iniziamo a entrare nell’ottica che l’esistenza ci è amica, allora guardiamo in modo diverso anche le crisi. I momenti bassi, se accettati e compresi, servono per poter trovare la felicità. La felicità dipende da noi.

Come si fa a essere felici?
La prima cosa è fermarsi. Dobbiamo cercare le risposte dentro noi stessi, non al di fuori, e uno strumento fondamentale è la meditazione. Una volta che ti sei guardato dentro e hai capito quale sia la tua vera natura, devi vivertela mollando il controllo e la ricerca della fama. Il vero successo è già vivere la propria natura.

Mica facile in un’era all’insegna della mania del controllo…
È la mente che ci spinge a controllare tutto, mentre dovrebbe mettersi al servizio dello spirito: un elemento che è sempre un po’ vago per noi occidentali. Al massimo lo associamo alla religione. L’energia invece fluisce solo se non la si blocca mentalmente. I miracoli accadono quando lasci andare le cose.

Leggi l’intervista completa su Libero Quotidiano

«La strada della sostenibilità è irreversibile»

Il tema della sostenibilità e dell’innovazione secondo Federica Marchionni, ceo della Global Fashion Agenda e autrice di Una testa piena di sogni, da Il Sole 24 Ore un articolo di Giulia Crivelli.

« Ho lavorato in aziende che vivono di innovazione, ma ogni tanto mi sentivo dire di non esagerare, di non proiettarmi sempre e comunque nel futuro. Da quando lavoro con l’industria globale della moda sull’infinito tema della sostenibilità, le mie proposte, le mie idee vengono accolte, ma allo stesso tempo mi si chiede sempre di spingermi oltre, di osare ancora di più. Mi sembra quasi di sognare, tanto mi è congeniale questo modo di lavorare ».
In realtà, di sogni ne ha già fatti e realizzati molti Federica Marchionni, da pochi mesi ceo del Global Fashion Agenda (Gfa), la più importante organizzazione no profit sulla comunicazione della moda sostenibile. Il suo debutto è stato il mese scorso al summit di Copenhagen, dove vive (si veda Il Sole 24 Ore del 15 ottobre), ma torna spesso in Italia, anche per parlare, specie con platee di giovani, del libro autobiografico uscito il 22 ottobre, Una testa piena di sogni (ROI Edizioni). Federica Marchionni ha “solo” cinquant’anni, ma una lunga carriera di manager di aziende assolutamente profit, al contrario del Gfa: è stata vicepresidente di Ferrari, presidente di Dolce &Gabbana Usa, nonché prima donna italiana al vertice di una società quotata a Wall Street, il gruppo di abbigliamento outdoor Lands’End.

« Bisognerebbe prima chiarire standard di valutazione e misurazione, perché l’industria globale della moda è un universo estremamente variegato, ma non sbagliamo se diciamo che consuma molte risorse, energia e materie prime – spiega Federica Marchionni-. È però altrettanto vero che ogni anello delle diverse e lunghissime filiere del sistema, più o meno globalizzate, è consapevole della necessità di un cambiamento e disponibile a investire risorse economiche e culturali per farlo avvenire ».

Niente bla bla bla, insomma? « Summit come quello di Copenhagen, ma anche G20 e Cop26, non sono mai solo parole o proclami. Nel caso dell’industria della moda gli stimoli vengono però da ogni direzione: dai consumatori, specie i più giovani, agli investitori finanziari – aggiunge la ceo della Global Fashion Agenda -. Chi sta in mezzo, le aziende che producono e distribuiscono, devono trovare soluzioni innovative alle nuove esigenze. Di una cosa sono certa: il processo è irreversibile e ogni singolo passo avanti è positivo. Anzi, va bene pure fare due passi avanti e uno indietro, quello che conta è la direzione ».

Leggi l’articolo su Il Sole 24 Ore

Non limitatevi ai fatti. Raccontate una storia!

Il marketing racconta balle

Crediamo tutti in cose che non sono vere. O per dirla in altri termini: molte cose sono vere solo perché ci crediamo. Le idee contenute in questo libro hanno fatto eleggere un presidente, fatto crescere associazioni non profit, creato miliardari e alimentato interi movimenti. Hanno anche portato a lavori grandiosi, appuntamenti divertenti e a qualche interazione che ha avuto una certa rilevanza. Ho visto questo libro nei quartieri generali di campagne politiche e a conferenze evangeliche. Ho anche ricevute email da persone che lo avevano letto e ne avevano applicato le idee in Giappone, nel Regno Unito e, sì, persino ad Akron, nell’Ohio.

Queste idee funzionano perché sono strumenti semplici per capire cosa accade quando le persone si imbattono in voi o nella vostra organizzazione. Ecco un riassunto della prima parte: crediamo tutti a ciò che vogliamo credere e, una volta che abbiamo preso una cosa per buona, diventa una realtà che si autodetermina. (Saltate avanti di qualche paragrafo per leggere la seconda parte, più critica, del riassunto.) Se siete convinti che il vino più costoso sia più buono, allora lo sarà. Se siete convinti che la vostra nuova capa sia più efficace, allora lo sarà. Se amate la tenuta di strada di un’auto, allora vi divertirete a guidarla.

Sembra un principio ovvio, ma se davvero lo è perché ancora tanti lo ignorano? Lo ignorano i professionisti del marketing, lo ignorano i comuni consumatori e lo ignorano persino i nostri leader. Se andiamo al di là del mero soddisfacimento dei bisogni, ci addentriamo nel complesso territorio del soddisfacimento dei desideri. E questi sono difficili da misurare e difficili da comprendere. Il che fa del marketing l’affascinante esercizio intellettuale che è. Ma ecco la seconda parte del riassunto: quando siete presi dal raccontare storie a un pubblico che vuole ascoltarle, sarete tentati di raccontare storie che non reggono. Bugie. Inganni. C’è stato un tempo in cui questo tipo di storytelling funzionava piuttosto bene. Joe McCarthy è diventato famoso per le bugie sulla “minaccia comunista”. Le aziende di acqua in bottiglia hanno fatto miliardi mentendo sulla maggior purezza del loro prodotto rispetto all’acqua del rubinetto nella maggior parte dei Paesi sviluppati.

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