Oggi, ai miei clienti spiego che devono innanzitutto liberarsi della paura di perdere e, cosa ancora più importante, comprendere l’immenso valore generativo della sconfitta. Ma la teoria ha i suoi limiti, e per questo a tutti loro, per prima cosa, racconto la mia
vita, come mi accingo a fare su queste pagine anche con voi. Se le storie sono strumenti per vivere, quelle delle vite degli altri possono essere mezzi per capire e migliorare la propria. Chi cerca in me un coach per via della mia reputazione di giocatore di basket vincente si ritrova a frequentare in prima battuta un percorso di approfondimento di teoria e pratica della sconfitta, perché non è quest’ultima a fotterci, ma la paura che nutriamo nei suoi confronti. Non è curioso? Siamo spaventati non solo dalle sconfitte reali, ma perfino dall’idea di parlarne. È tutta una questione di orgoglio, ma, come dice Vasco Rossi, “ne ha rovinati più lui del petrolio”.
Fra gli individui particolarmente competitivi l’orgoglio abbonda in misura esponenziale, ed ecco spiegato perché le biografie degli atleti si soffermano in particolare sui trionfi, mentre tendono a glissare sulle fasi oscure o deprimenti, che in realtà costituiscono il più delle volte capitoli cruciali nella crescita dei protagonisti come sportivi e come esseri umani. Ho una mezza idea che i social network abbiano dato una sponda gigantesca alla nostra riluttanza a mostrarci per quel che siamo, imperfezioni incluse. Online siamo tutti perfetti, una versione riveduta e corretta della nostra quotidianità, senza sconfitte. Ma in fin dei conti il problema non è la sconfitta in quanto tale bensì la vergogna della sconfitta, un sentimento che in Italia trova terreno fin troppo fertile. Una questione storica e culturale, suppongo. Altrove si considera perfettamente normale che si possa subire una sconfitta, e altrettanto ovvio che si abbia il dovere/diritto di rialzarsi e di ricominciare. Senza sentirsi mai dei perdenti.