Alessio Sakara

Devo molto al coraggio

Quando la paura mostra le zanne e ringhia nella notte, non c’è altro da fare che andarle incontro. Allora scopri una cosa interessante. La paura ha paura del tuo coraggio.

Genova, 1° dicembre 2018
Me la vedo con l’inglese Kent Kauppinen, l’arena è gremita, guanti rossi per me, guanti azzurri per Kauppinen. Il pubblico è quasi tutto dalla mia. Sono a casa, sono in paradiso, ossia fra le maglie della gabbia. Qui c’è tutto ciò che desidero, a cominciare da un avversario da combattere lealmente. A un minuto e dieci secondi dall’inizio del primo round vengo raggiunto da un gancio sinistro. Il ring si spalanca, le luci si spengono, è tutto sottosopra. Mi accascio e Kauppinen si accinge a colpire ancora mentre sono riverso al suolo. È un’opzione che le MMA non escludono affatto, si chiama: ground and pound. Un combattente è al tappeto e l’altro continua a colpirlo. Ed è esattamente quello che avviene. Una pioggia di cazzotti e sotto i cazzotti c’è la mia faccia. Riapro gli occhi. Mi chiedo quanto manchi all’inizio dell’incontro. Ma mi informano che il match è finito. Non ci posso credere.
Poche storie, i knock-out fanno parte della vita, ma quel giorno è stato diverso. Per la seconda volta soltanto in tutta la mia carriera tutti i sistemi si erano disattivati in un colpo solo. I “sanpietrini”, come io chiamo i pugni più pesanti, sono brutte bestie. Un ko brutale.

Ed eccomi qui a raccontarlo senza remore, per essere ancora una volta coerente con me stesso e chi mi segue. Infatti, visto che stiamo discutendo del coraggio, ammetterò che me ne serve una certa dose per espormi in questo modo, perché non fa piacere ripensare alle sconfitte. Però sarebbe da codardi nascondere la verità. Quindi proseguiamo con assoluta franchezza, visto che le sconfitte hanno molto da insegnare. Un Legionario impara anche quando cade. A patto che si rialzi. Questa è la teoria. Poi però succede qualcosa di strano, ed è qui che la storia si complica. Non siamo macchine.

Milano, novembre 2019
Negli spogliatoi dell’impianto i bassi sparati dal subwoofer vibrano in sottofondo fondendosi con il vociare del pubblico che gremisce gli spalti. Sto scaldando i muscoli, come sempre prima di un incontro. Venti minuti belli intensi, in sedute da cinque minuti circa, il sudore sulla pelle, i pugni che bersagliano i pao indossati dall’allenatore. Tonfi secchi e ripetuti, veloci e poi ancora figure e shadow boxing. Mi sento in forma, sciolto. Non vedo l’ora, sono pronto. Ma all’improvviso una vocina nella mia testa comincia a sibilare: E se adesso mi ricapita? Strizzo gli occhi, sferro un montante da una tonnellata. E se vado al tappeto come l’altra volta? Il cuore manca un colpo. Conan Silveira, il mio allenatore, mi scocca un’occhiata indagatrice da dietro i pao, una di quelle che stanno a significare: “Dove hai la testa?” Qui, rispondo tacitamente a lui e a me stesso. E giù di riscaldamento. Il momento si avvicina, l’adrenalina scorre alla grande, come piace a me… E se mi ricapita? Di nuovo la vocina. A quel punto il cuore accelera più di quanto vorrei. Un brivido mi risale la schiena come una tarantola, di quelle che ho visto in Brasile quando sono andato a combattere a Manaus per il Jungle Fight. Di colpo riconosco la sensazione. È più gelida del solito, più subdola. È la paura che prende per il collo. Era un po’ che io e lei non ci scontravamo così duramente. E dire che pensavo di averla debellata da un bel pezzo.
Lei digrigna i denti.
“Tutto bene, Alessio?”, mi chiede Conan accigliato. Annuisco senza fiatare. Sto avendo una conversazione con la paura e lei è un’ospite esigente, non ama dividermi con nessuno. Non importa quanta esperienza hai maturato, un giorno la paura potrebbe scovarti lo stesso. Con me lo ha fatto. E quel giorno ho dovuto ricordare a me stesso che ci sono due modi di sconfiggerla. La prima è la preparazione. La seconda è l’azione. Tutte e due allenano il coraggio. La preparazione è l’antidoto alla paura più grande: la paura dell’ignoto. A spaventarci è tutto ciò che non conosciamo, ciò che non abbiamo portato all’attenzione della nostra intelligenza. Se ti ritrovi tutto a un tratto catapultato nella gabbia dei leoni, è normale che ti comincino a tremare le gambe. Ma se hai studiato le tecniche di addestramento dei leoni per mesi, è tutta un’altra cosa. Lo stesso vale per il razzismo. Il razzismo è una forma di paura, non conosci l’altro e di conseguenza pensi di doverti difendere. Ma se conosci l’altro, se hai viaggiato, se hai visto il mondo o sei hai letto, ti sei informato… non c’è razzismo che tenga. Pippe mentali, è di questo che abbiamo paura veramente. Studiare ti rende coraggioso. Si può imparare dai libri e dall’esperienza diretta, ma è meglio non sottovalutare la preparazione teorica, sulle pagine scritte, perché da sempre i grandi uomini sono diventati tali confrontandosi con altri grandi uomini. Molti di essi continuano a parlarci attraverso i libri che hanno scritto prima che noi nascessimo. Dal momento che non sono fra noi fisicamente, non c’è altro modo di conoscerli. Io sarò sempre riconoscente a Giulio Cesare, Seneca, Marco Aurelio e tanti altri grandi pensatori dell’antichità. La filosofia stoica mi ispira ogni giorno. È la visione del mondo che rendeva più forti i legionari, che permetteva loro di superare ogni sfida a denti stretti. Le parole degli autori di duemila anni fa riecheggiano nella mia vita. I loro libri sono sempre con me. Leggo ogni giorno e così alleno il mio spirito e il mio pensiero al coraggio. Il secondo modo per allenare lo spirito indomito di un legionario è l’azione. Quando la paura mostra le zanne e ringhia nella notte, non c’è altro da fare che andarle incontro. Allora scopri una cosa interessante.

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