Ai tempi del college, nel gruppo di amici di cui facevo parte, circolava un aneddoto. Il nostro racconto era talmente ritualistico che, oggi, a quarantacinque anni di distanza, sono indotto a pensare che si approssimi alla versione letterale. Quella storia si dispiegava proprio così:
Un giorno, William James stava tenendo una conferenza sull’origine della vita e sulla natura dell’universo. Al termine del discorso, una donna anziana si avvicinò e gli disse: “Professor James, quel che ha descritto è tutto sbagliato.”
A quel punto, James, mostrando un certo stupore, le chiese: “In che senso, signora?”
“Le cose non stanno affatto come ha appena detto”, rispose lei. “Il mondo giace sul dorso di una gigantesca tartaruga.”
“Mmm”, commentò lui, divertito. “Può darsi, ma su cosa si regge quella tartaruga?”
“Sul dorso di un’altra tartaruga”, rispose lei.
“Ma, signora,” replicò James con indulgenza “su cosa poggia le zampe quella seconda tartaruga?”
In quel momento, l’anziana donna rispose trionfante: “Eviti di insistere, professor James. Ci sono tartarughe all’infinito!”
Oh, come amavamo quella storia, che raccontavamo sempre con lo stesso tono. Pensavamo che ci facesse apparire arguti, incisivi e interessanti. Impiegavamo quell’aneddoto come una forma di derisione; una sorta di critica peggiorativa nei riguardi di qualcuno che si “aggrappava”, in modo incrollabile, all’illogicità. Ci saremmo ritrovati nel refettorio, qualcuno avrebbe detto qualcosa di insensato e, poi, la sua replica alla confutazione avrebbe complicato le cose. Inevitabilmente, uno di noi avrebbe infine proferito, con sufficienza: “Eviti di insistere, professor James!” A quel punto, la persona, che aveva sentito raccontare, infinite volte, il nostro stupido aneddoto, avrebbe invariabilmente risposto: “Fanculo, ascolta e basta. Questo ha perfettamente senso.”